Diego Rossi, chef del ristorante Trippa a Milano, condivide la nostra filosofia che attribuisce grande valore alla ricerca del prodotto, distinguendosi come promotore nel settore della ristorazione.
Ciao Diego, puoi raccontarci cosa significa per te fare ricerca sul prodotto?
Sicuramente vuol dire studiare la storia, le ricette e la tradizione culinaria delle varie regioni italiane, perché io mi occupo più che altro dell’Italia. Poi bisogna cercare questi ingredienti nei posti di origine, anche quelli che sono stati dimenticati o abbandonati per provare a riportarli in luce. Non funziona per tutti, ma cerchiamo sempre di proporli ai nostri clienti in modo contemporaneo.
La ricerca, però, ha un costo, sia in termini di tempo che di prodotto. Che cosa fa un ristorante come il tuo per mantenere la sostenibilità anche per i clienti?
É difficile. Per quanto riguarda la ricerca, dedico il mio tempo, quello è un piacere. Sono molto curioso e quando viaggio scopro prodotti informandomi.
Per riuscire a venderli bisogna ovviamente saper bilanciare il menù. Noi cerchiamo di equilibrare i vari piatti in maniera da riuscire a proporli a una cifra tollerabile da parte del cliente.
Quindi, come in tanti aspetti della ristorazione, si tratta di trovare il giusto equilibrio, un po’ come sta accadendo con la questione della forza lavoro. Come lo affrontate da Trippa?
Anche in questo ambito, la risposta è che bisogna trovare un compromesso. Per riuscire a lavorare solo la sera e far lavorare tutti all’incirca otto ore, quindi dare ai ragazzi una vita oltre la cucina, abbiamo dovuto assumere più personale perché in quelle otto ore dobbiamo concentrare tutto il lavoro di una giornata.
Se ti dico Il cibo ha fame di futuro cosa ti viene in mente?
È una domanda ampia. Il cibo chiede sempre futuro. Quando si parla di tradizione è anche giusto non fossilizzarsi troppo, ma guardare sempre avanti. Quello che stiamo facendo oggi è cercare di creare la tradizione di un futuro prossimo: alcuni piatti sono strettamente tradizionali, altri sono completamente inventati, rispettando stagionalità e territorialità.
Tu hai reso il quinto quarto una vera e propria tendenza, tanto da dedicargli il nome del tuo ristorante. Quali sono i due piatti più famosi?
Sicuramente la trippa fritta e il vitello tonnato. La trippa fritta, ispirata da un locale di Firenze e poi rivisitata, conquista anche i palati più difficili grazie a croccantezza esterna e morbidezza interna. Nasce dalla mia passione per le interiora, che trovo più interessanti della carne normale, per consistenze, sapori e metodi di preparazione.
È anche una sfida far apprezzare un ingrediente povero a chi di solito non lo ama.
E il vitello tonnato?
Il vitello tonnato? Una botta di culo (ride). Scherzi a parte, è un piatto che mi riporta ai tempi di Cuneo, dove io e Juri Chiotti, (oggi chef di Reis – cibo libero di montagna) pensavamo a una versione più contemporanea: più alto, arioso e con una carne più tenera. Poi ho usato i capperi… Capperi di…vabbè un’azienda qua italiana molto buona e dello jus di carne. I capperi danno quella spinta in acidità e aromaticità, lo jus (il fondo) invece, aggiunge rotondità.